Perfetta metafora del calcio, magari non solo nostrano, quella offerta domenica sera al Meazza dal derby di Milano: spalti ricolmi, milioni davanti alla tv per la gioia delle emittenti pay e la valorizzazione degli investimenti pubblicitari, cioè un sovraprezzo ai prodotti che pesa sui clienti, sempre noi… E sul terreno di gioco uno spettacolo men che decente, di quelli che fanno sospirare gli ex campioni commentatori in studio come a dire “ai tempi nostri questa gente non avrebbe mai visto il campo”. Perché tutto ciò metaforizza Rotondolandia? Perché un po’ dappertutto la bomboniera pallonara acquista valore e i confetti sono sempre più rancidi, essendo la qualità del calcio giocato in trend inversamente proporzionale al movimento che genera intorno a sé.
La Rotondomania sta colonizzando il pianeta, andando in cerca di aree finora arate da altri sport (cfr. il pallone in India, per dire), e il business cresce per un prodotto che peggiora. Il derby tra il vecchionuovo Mancini e Superpippo telecomandato da Berlusconi ne è stata la esemplare dimostrazione. Sì, nella giornata dominata soprattutto dalla Juve e dalla Roma di conserva, segnalasi il gol n. 200 in serie A di un ragazzotto oramai di oltre mezz’età dantesca che da bambino palleggiava per ore con un’arancia e adesso lo fa senza scomporsi di nulla nelle aree pallonare urbane più affollate, Totò Di Natale. Ma sono chicche in un contesto deplorevole, in cui il fuoricampo la fa da padrone su quello che si vede in campo. Del resto ormai da anni i registi fanno inquadrare la smorfia di tizio o le dita nel naso di caio, in panchina o in tribuna, dando loro assai più risalto che non alle “sgiocate” che ci propinano i nostri eroi decadenti. E i media garriscono certamente per Pogba e Tevez, capitani di ventura della squadra attualmente migliore d’Italia ma sempre a rischio in Europa, ma smaltano assai di più le dichiarazioni -che so – di un Andrea Agnelli che parla di Moggi.
Sembra passato un secolo da Calciopoli, quando il rampollo non esisteva ancora sotto i riflettori, ma sono solo otto anni, pochi “per la storia centenaria della Vecchia Signora”, e nel frattempo è passata la B per la Juve, le stagioni incerte in A e da Conte in poi la completa resurrezione scudettata degli ultimi tre anni. Adesso il tempo pare sopire e troncare, quindi per Agnelli “Moggi è una parte importante della nostra storia e visto che siamo in un Paese cattolico lo si può anche perdonare…”. Tradotto per gli stenti logografi dell’ambiente, se ne deduce una sorta di “riabilitazione” per il Barbablù del pallone d’antan, che avrebbe fatto le stesse cose fatte anche da altri, leggi l’Inter, che si è attribuito scudetti a tavolino. Moggi, piccato, ha risposto di “non aver bisogno di alcun perdono, semmai di un elogio”. E’ un modo per riesumare una vicenda che malgrado la radiazione sportiva dell’ex Direttore Generale del club plurititolato e la sua condanna in due gradi di giudizio in attesa della Cassazione, il prossimo 22 gennaio, a parer mio rimane ancora fondamentalmente oscura.
Liquidare tutto liquidando Moggi o additandolo al perdono come fa Agnelli è perlomeno equivoco. Intanto, perché è tutto da dimostrare che negli ultimi otto anni, scommesse a ripetizione comprese, il calcio e la sua Rotondocrazia siano rimasti indenni da macchie e condizionamenti, che gli arbitri improvvisamente abbiano sbagliato sì come prima ma “in buona fede”, che il potere sportivo-calcistico sia più trasparente di quello precedente. Chi ci metterebbe la mano sul fuoco, tra i tanti Muzio Scevola che ne discettano? Poi perché nulla ci dice il nipotino Agnelli delle trame famigliari e d’impresa intorno alla Juventus di quegli anni, con incontri indebiti assai prima della deflagrazione di Calciopoli, nel 2004, morto l’Avvocato ed Umberto, tra John Elkann e Jean Claude Blanc per ingaggiare quest’ultimo volendo eliminare Moggi… Infine perché in Appello a Napoli si è sentenziato che tutte le partite dei campionati incriminati nel relativo processo “sono risultate regolari”, il che ci lascia ritenere che Moggi e company abbiano tramato per hobby, senza costrutto. Ma per tramare forse avevano bisogno di un ambiente adatto, nel quale tutti sapevano e nessuno parlava. Anzi tra club e media di Moggi e Giraudo erano stati fatti degli idola tribus: la conclusione potrebbe essere, fuori dai brocardi, che nel marciume dilagante pallonaro guizzavano tutti, e Moggi lo faceva semplicemente meglio degli altri. E tra quei tutti c’è posto oltre che per i presidenti di club anche per le dirigenze istituzionali, la giustizia sportiva e insomma tutto il Palazzo straintercettato nelle conversazioni di allora eppure uscito lindo e pinto, rigenerato dalla “cattura del capobanda”. E ci credo che se alla Craxi del “chi non c’entra scagli la prima pietra” Moggi non vuol sentir parlare di perdono, è perché in un mondo in cui guidavano tutti contromano hanno beccato solo lui. E questo Agnelli lo sa benissimo. Ma parla impropriamente di “perdono”. Per parte mia mi accontenterei di una confessione generale, ma si sa, sono all’antica…
Oliviero Beha, Il Fatto Quotidiano